Vi è mai capitato, attraversando le strade del centro antico di Napoli, di imbattervi in curiosi panetti di colore rosso acceso esposti nelle vetrine delle più tradizionali macellerie cittadine? Per chi non sapesse di cose si tratta, questi mattoncini sono il condensato della più genuina, contadina, saporita tradizione della gastronomia napoletana. Sua maestà il zoffritto, protagonista di sagre ed eventi in giro per la Campania, è venduto in forma di panetti dalla consistenza densissima che, una volta acquistati, vengono scaldati in pentola e allungati con poca o molta acqua a seconda dei gusti.
Una ricetta – piccante – con tanti usi
Il zoffritto, noto anche come zuppa forte per la sua piccantezza, è un preparato a base di interiora di maiale soffritte e a lungo stufate in salsa di pomodoro. Il risultato della lenta cottura è una sorta di ragù povero (ma altrettanto gustoso) che si presta a numerose applicazioni: con una consistenza più densa può essere mangiato ‘assoluto’ o utilizzato per farcire panini e condire pizze; se più liquido,è perfetto per condire la pasta o per assemblare la cosiddetta zuppa di zoffritto, a base di fette di pane raffermo.
Il nome zoffritto, come si può facilmente intuire, deriva dal verbo soffriggere, presente anche in napoletano e derivato dal latino SUBFRIGĔRE. Pietanze definite soffritto esistono almeno dal Quattrocento: una prima ricetta con questo nome è presente nel Libro de arte coquinaria del celeberrimo Maestro Martino. In questo e nei libri di ricette successivi, le preparazioni dette soffritto sono molto simili a quelle che oggi, altrove in Italia, prendono il nome di fricassea. Il legame tra il zoffritto e la fricassea oggi non è più avvertito, ma se ne trova traccia linguistica nel siciliano, dove con la parola fricasè si definisce una pietanza a base di interiora di pollo e carne tritata cotte in abbondante sugo.
Nei testi della letteratura napoletana il zoffritto è citato almeno dal Seicento. Ad esempio, nelle sue Muse napolitane Giovan Battista Basile scrive: «Iammo a le case nostre, / facimmo ’no pignato maritato, / cocimmo ’no zoffritto, e magnammo quïete». Non sappiamo esattamente a che tipo di preparazione facessero riferimento gli autori sei-settecenteschi con la parola zoffritto. Certo è che non doveva trattarsi del zoffritto come lo conosciamo oggi, dato che per la prima ricetta alla napoletana bisognerà aspettare la pubblicazione, avvenuta nel 1839, del capolavoro di Ippolito Cavalcanti: la Cucina teorico-pratica. Nell’appendice in dialetto napoletano, Cavalcanti riporta la ricetta del zoffritto, che prevede la frittura delle frattaglie, condite con erbette, nella sugna e la loro lunga cottura in conserva di pomodoro. L’autore consiglia inoltre l’uso di peperoni e di «polvere de puparuoli forti» (peperoncino).
La ricetta del Cavalcanti rispecchia una tradizione gastronomica che potremmo definire cittadina. Il zoffritto da lui descritto è, in effetti, quello ancora venduto nelle macellerie napoletane. Esiste, tuttavia, anche una versione ‘contadina’ del zoffritto, diffusa soprattutto nell’entroterra campano. Si tratta di una preparazione che ha come ingrediente principale le interiora di maiale o di altro animale, cotte e lungo e insaporite con patate. L’ingrediente segreto di questa versione è la papaccella sottaceto, che conferisce allo stufato un sapore inconfondibile. Questa stessa pietanza è definita, in Campania, con i nomi più disparati: farzòla, fritta, sfriònzola, sfrittuliàta o zaònta. È interessante notare come, in un modo o in un altro, tutte queste denominazioni facciano perno sull’atto del soffriggere le interiora, operazione primaria della preparazione del zoffritto.