Anche il tonno vuole la sua parte. La storia del tarantiello
Uno dei vanti della gastronomia italiana è rappresentato, si sa, dall’industria dei salumi. Prosciutti, salami, mortadelle vengono lavorati in tutta la penisola e da qui esportati in tutto il mondo come ambasciatori della cultura culinaria d’Italia. Si tratta per lo più di prodotti realizzati con carne suina sottoposta a particolari processi di stagionatura o cottura. Più raramente viene utilizzata carne bianca, come nel caso del salame d’oca, mentre ancora più inusuali sembrano i salumi di pesce. Tra questi spicca sicuramente il tarantello, salume ottenuto dalla ventresca di tonno, ancora utilizzato in alcune cucine meridionali.
Una parola che viene dalle isole
La parola tarantello appare per la prima volta in un documento siciliano del 1380, in cui era usata per indicare un taglio ben preciso del tonno, probabilmente la ventresca. In un ricettario del Quattrocento, invece, con il termine tarantello si indicava un vero e proprio salume a base di ventresca di tonno. I documenti ci informano che, nel passato, il primo significato era diffuso nelle zone in cui la pesca del tonno era praticata con regolarità, come la Sicilia, la Sardegna o la Corsica; il secondo significato, invece, era tipico di quelle aree in cui la pesca del tonno non era molto praticata e quindi il tonno veniva consumato in forma di salume che poteva essere conservato più a lungo. È questo il caso della Campania, oltre che di altre aree d’Italia.
In Campania il tarantello diventa tarantiello. Le prime notizie della presenza della parola in questa regione si hanno nel Cinquecento, in un documento in cui si parla della produzione del tonno in Sicilia e Spagna. In una commedia intitolata Farza de lo mastro de Scola di Vincenzo Braca (1566-1614) l’associazione tra la saraca, che si consumava sotto sale, e il tarantiello ci permette di immaginare che anche quest’ultimo doveva essere sottoposto a salatura, come un vero e proprio salume. Dalla Farza in poi, infatti, la parola tarantiello apparirà sempre nel significato di ‘salume’ in alcuni dei più importanti testi della letteratura napoletana e nei ricettari della zona. Tra questi, l’immancabile Cucina teorico-pratica di Cavalcanti, nella quale si propone spesso la sostituzione del prosciutto con il tarantiello durante i giorni di magro (come il Venerdì Santo).
Come si può facilmente intuire, la parola deriva dal toponimo Taranto, città in cui, soprattutto in passato, la pesca e la vendita del tonno erano attività molto fiorenti. Nell’entroterra campano, un salume denominato tarantiello veniva consumato ancora intorno agli anni ʼ60 del Novecento. Se in alcune regioni è ancora possibile trovare questo prodotto, oggi con il termine tarantiello si indica prevalentemente la ventresca del tonno conservata sott’olio. Si tratta di un alimento prelibato, dal sapore fresco a dal gusto molto delicato, molto apprezzato in Campania.
Se siete curiosi di assaggiare questa prelibatezza, l’occasione migliore rimane la vivacissima sagra del tarantiello che si tiene ogni anno, nel mese di settembre, nel comune di San Gennaro Vesuviano. La sagra si inserisce nella più ampia Fiera vesuviana, durante la quale produttori e ristoratori mettono in mostra le meraviglie del proprio lavoro. È qui, tra il zoffritto e il piennolo, che prendono forma le gustose pizze e gli abbondanti primi conditi con delicatissimi sughetti arricchiti di tarantiello.