La “memoria felice di re Andrea” ricorda la pastiera
Ogni famiglia napoletana ritiene di possedere il segreto della sua buona riuscita. Nei giorni intorno alla domenica di Pasqua il suo profumo invade le cucine delle case della città. La sua decorazione a strisce chiare è inconfondibile ed è un piccolo capolavoro dell’arte culinaria casereccia. Stiamo parlando della pastiera, il dolce per eccellenza della tradizione gastronomica napoletana. Eppure, la pastiera non è sempre stata quella che conosciamo…
Dal salato al dolce
Ci sono buone probabilità che la pastiera fosse, in origine, salata. Questa versione, un tempo diffusa anche a Napoli, è rimasta fino ai nostri giorni nell’entroterra campano dove, con la stessa parola, si indicano numerose preparazioni “rustiche”. Non mancano, naturalmente, altrettante varianti dolci della pastiera ma non è chiaro stabilire intorno a quale periodo storico sia avvenuto il passaggio da ‘salato’ a ‘dolce’. È bene tenere presente, poi, che questo passaggio non si realizzò in modo netto. Nel tempo, infatti, la percezione del gusto è molto cambiata e in passato non era difficile trovare, nella stessa pietanza, ingredienti dolci e salati.
Così il cavalier Antonio Latini, nel suo Scalco alla moderna del 1694, trascrive una ricetta della pastiera che include, oltre a grano, ricotta, zucchero e cannella, anche “cascio Parmiggiano grattato”, sale e pepe. Se per Ferdinando Galiani, autore di un vocabolario del napoletano (1789), e per Ippolito Cavalcanti, autore della celebre Cucina teorico-pratica (1837), la pastiera è senza dubbio dolce, per il vocabolario di Raffaele D’Ambra la pietanza può essere sia dolce che salata. Oggi a Napoli prevale certamente la versione dolce e il ruolo di questa città come importante centro culturale ha favorito il successo della pastiera in tutta Italia. La versione salata sembra essere molto apprezzata nell’entroterra campano, dove tuttavia convive, in perfetto equilibrio, con la pastiera dolce, tipica della tradizione pasquale. Ma cosa possiamo dire della parola usata per indicare questa versatilissima preparazione?
Come spesso accade, soprattutto quando si parla di cibo, lo studio della storia delle parole fornisce notizie preziose sull’origine stessa delle pietanze. Il termine pastiera compare per la prima volta in un documento del sud della Francia. Questo dato ci informa che il termine e la stessa preparazione siano giunti in Italia proprio dalla Francia. Il poeta napoletano Jacopo Sannazaro conferma questa informazione in un suo componimento nel quale parla della pastiera come di un cibo (probabilmente salato) gradito al re angioino Andrea, di origine francese. Dalla Francia, parola e prodotto avrebbero poi raggiunto la Campania, muovendosi inizialmente negli ambienti di corte.
La parola nasce dall’incontro di pasta con il suffisso francese –ière, che si usa per indicare i contenitori, come avviene in zuppiera,saliera o lumiera, tutti prestiti dal francese. Il termine pastiera indicava quindi un contenitore? Ebbene sì! Nel sud della Francia, infatti, è sopravvissuta la parola pastieyra nel senso di ‘contenitore per gli impasti’. Come si sarebbe passati, allora, dal significato di ‘contenitore’ a quello di ‘preparazione di pasta frolla variamente ripiena’? È presto detto: un passaggio di significato simile non è inusuale in ambito gastronomico. Un caso affine è quello della paella o, per rimanere in Campania, quello del pignato maritato. A ciò si aggiunge il fatto che la pastiera è a tutti gli effetti un “contenitore” di pasta frolla che accoglie un ripieno.
In qualunque versione la si gusti, la pastiera è sempre la regina delle tavole e porta ovunque il sapore delle feste. Alla variante dolce, poi, è associato anche il felice compito di annunciare la primavera. L’inconfondibile profumo di fiori che porta nel suo morbido ripieno la rende il dolce perfetto della Pasqua, simbolo armonico della rinascita della natura e dell’uomo.