Patate con la nzogna e cocozzielli alla scapece… Ecco il binomio gastronomico che richiama alla memoria il famoso film Un turco napoletano con protagonista Totò nei panni di Felice Sciosciammocca. Perché Carluccio Uomo di Ferro detesti le zucchine alla scapeceal punto da sottoscrivere la cosa nel contratto di matrimonio resterà un mistero. Il loro gusto deciso e fresco, infatti, è il sapore più tipico delle estati campane.
Cos’è la marinatura e con quali alimenti si adopera?
Con il termine scapece ci si riferisce, in genere, ad un particolare modo di marinare certi ingredienti. Questa marinatura si realizza con prodotti semplici, cioè aceto, aglio e menta. La tradizione campana più moderna preferisce utilizzare questo tipo di condimento sulle zucchine fritte e alcune ricette prevedono che una piccola parte dello stesso olio di frittura venga inserito nella marinatura. Tuttavia, in passato, anche altri ingredienti venivano gustati alla scapece. Quali?
Tra tutti, il pesce, meglio se fritto, come ricorda Vincenzo De Ritis, autore di un vocabolario del napoletano. Il letterato napoletano Michele Zezza specifica che le sarde rientrano certamente tra i prodotti che più si prestano a questo tipo di condimento. Nel Settecento a Napoli erano molto amate le melanzane alla scapece, di cui c’è traccia nelle opere del commediografo Francesco Cerlone.
Le attestazioni più antiche della parola scapece riconducibili all’area napoletana risalgono tuttavia già alla prima metà del Seicento. Nella celebre Vaiasseide di Giulio Cesare Cortese e nell’ancor più celebre Cunto de li Cunti di Giovan Battista Basile la parola è utilizzata con valore metaforico. Entrambi usano l’espressione fare scapece (di qualcuno) che significa ‘ridurre a pezzetti’ con riferimento all’atto di sminuzzare il cibo prima di condirlo. Negli stessi anni il cuoco napoletano Giovan Battista Crisci stuzzicava l’appetito dei suoi commensali con ostreche de Taranto in scapece guarnite di limone, calamari fritti in scapece, sarde e triglie in scapece guarnite di limoncello…
Quanto all’origine della parola, bisogna dire che la teoria più diffusa in rete la vorrebbe derivata dall’espressione latino ex Apici, dal nome del famoso gastronomo Apicio. Benché affascinante, questa ipotesi non è molto credibile sul piano storico-linguistico. Infatti, la parola giunge a Napoli dalla Spagna, nella cui lingua esiste la parola escabeche per indicare un condimento molto simile. Il termine spagnolo deriva a sua volta dall’arabo sikbeğ che significa ‘carne marinata’. Volendo andare ancor più indietro nel tempo potremmo fare riferimento al persiano sikbä da cui ha avuto origine la parola araba.
La scapece è quindi una preparazione molto antica il cui successo è dovuto, forse, alla possibilità che essa offriva di conservare a lungo i cibi, in tempi in cui lo spreco non era contemplabile. L’enorme successo è misurabile in base all’ampissima diffusione della parola e, quindi, della preparazione. Dall’Abruzzo alla Sicilia, tutte le regioni conoscono questo tipo di condimento, la cui ricetta può variare includendo ingredienti come lo zafferano, il pepe in grani, le cipolle o il rosmarino. Piatti a scabeccio sono preparati anche in Liguria, mentre in Corsica la parola prende la forma di scapecchiu.