La Sicilia e Napoli se ne contendono l’invenzione, Parma – almeno in apparenza – le dà il nome: è un vero e proprio scontro tra titani gastronomici, quello che si consuma intorno alla tanto amata parmigiana di melanzane. Che la si cucini alla siciliana, con solo sugo, formaggio grattugiato e basilico, o alla napoletana con l’aggiunta di provola o mozzarella, ciò che non può mancare nella parmigiana sono le gustosissime melanzane fritte.
Puristi, riformisti e amanti della leggerezza
Bianca o rossa, con o senza prosciutto, la parmigiana è un piatto iconico che Napoli condivide con buona parte del sud Italia. Nel capoluogo campano e nelle città vicine si cucina stratificando melanzane fritte, sugo, parmigiano e mozzarella, fino a ottenere una sorta di torta ulteriormente cotta in forno. Non è certo il pasto più leggero che si possa consumare, in un caldo pranzo meridionale… Per questo motivo, versioni più recenti della parmigiana prevedono l’uso di melanzane grigliate, categoricamente rifiutate dai puristi.
In volgare italiano, l’espressione torta parmigiana comparve per la prima volta in un ricettario del Trecento in cui indicava una torta a base di carne, formaggio, uova e molte spezie. Come nella moderna parmigiana gli ingredienti venivano disposti in strati e cotti sul fuoco. Tuttavia, siamo ancora ben lontani dalla nostra parmigiana, sulle cui origini non si hanno molte informazioni. Ciò che è certo è che essa non poté essere “inventata” prima della diffusione dei suoi ingredienti principali, cioè le melanzane e la salsa di pomodoro, cosa che avvenne solo alla fine del Seicento.
Una ricetta di zucche lunghe alla Parmegiana apparve, comunque, nel Cuoco galante del napoletano Vincenzo Corrado e prevedeva l’uso di parmigiano, di burro e di una salsa di gialli d’uovo stratificati assieme alle fette di verdura. Per la ricetta delle molignane a la parmisciana bisognerà aspettare la pubblicazione del libro di cucina di Ippolito Cavalcanti che, delle melanzane fritte, scrive: “l’accungiarraje dint’ a no ruoto a felaro a felaro, co lo caso grattato, vasenecola ntretata, e brodo de stufato, o co la sauza de pommadore” (“le sistemerai a strati in una teglia, con formaggio grattugiato, basilico tritato e brodo di stufato o con la salsa di pomodoro”). Bisogna ricordare, però, che per Cavalcanti potevano essere cucinate a la parmesciana anche le zucchine, i cardi e persino il sedano.
Ma qual è l’origine del nome di questo piatto? E qual è il ruolo della città di Parma? L’ipotesi più semplice è che la parola derivi proprio dal toponimo Parma: cucinare alla parmigiana secondo alcuni significherebbe ‘realizzare pasticci di ingredienti stratificati’. Un’altra teoria avanzata è quella che fa derivare la parola dal siciliano parmiciana, cioè ‘lista di legno della persiana’, ancora una volta con riferimento alla stratificazione della pietanza. L’ipotesi più convincente, comunque, è quella dello studioso Sergio Lubello, che sostiene che il termine parmigiana derivi dal latino PARMA, cioè ‘scudo piccolo e rotondo’, con il quale il legame sarebbe da ricercare nella struttura compatta della preparazione. Solo in seguito l’introduzione del parmigiano come ingrediente avrebbe contribuito a legare indissolubilmente il nome di questo piatto alla città di Parma.
Esclusa la minaccia parmense, resta da scoprire se l’origine della parmigiana vada ricercata in Sicilia o a Napoli. Il rapporto di questa pietanza con altre preparazioni del mondo greco e arabo lascia immaginare che il ruolo della Sicilia sia stato decisivo. Ma bisogna ricordare che le ricette, come le parole, migrano da un posto all’altro, e come le parole, mutano con l’avanzare del tempo. Forse la parmigiana non è che l’ennesimo simbolo di una grande storia comune fatta di scambi e non di muri.