C’era una volta un sovrano polacco… Il babà, giovane re della pasticceria
Un impasto morbido e una dolce bagna di rhum sono tutto ciò che serve per creare uno dei dolci napoletani più famosi al mondo: il babà. Che sia o meno accompagnato da panna o crema e frutta, che abbia la forma di un fungo o quella di un disco di pasta ben lievitato, il babà è oggi uno dei pezzi irrinunciabili della guantiera domenicale che addolcisce il pranzo delle famiglie campane. Ma la sua origine ha ben poco a che vedere con la Campania…
Una storia regale
La gloriosa storia del babà inizia negli anni Trenta del Settecento con l’esilio del re di Polonia Stanislao I Leszczyński. Stabilitosi definitivamente in Lorena nel 1736, l’ex sovrano polacco portò con sé un nutrito seguito, nel quale non mancavano cuochi e pasticcieri di fiducia i quali importarono in Francia un dolce detto baba (in polacco ‘nonna’, pronunciato babà alla francese). Il gastronomo Grimod de la Reynière descrive il dolce polacco come una specie di savoiardo allo zafferano.
La prima ricetta nota del babà risale al 1815 e si trova in un trattato di pasticceria del cuoco e scrittore Marie-Antoine Carême. Secondo questa testimonianza, il babà era preparato con zafferano, uvetta di Corinto, uva varietà moscato e vino Madeira inserito nell’impasto. La ricetta del babà fu rielaborata nel tempo, in particolare dai discendenti di Nicolas Stohrer, cuoco franco-polacco giunto in Francia al seguito della figlia di Stanislao, Maria Leszczyńska, e fondatore della storica pasticceria Stohrer che ancora oggi propone sul proprio menù tre versioni del babà. Tra le mura della Stohrer si pensò di inumidire il dolce con una bagna al rhum, forse per arginare il problema della secchezza. Un ulteriore aggiornamento della ricetta si deve, poi, al maestro Brillat-Savarin che eliminò dall’impasto l’uvetta, sostituendo la panna, ingrediente originario, con il latte. L’impasto così ottenuto si prestava facilmente alla preparazione di vere torte babà, ancora oggi definite, appunto, savarin.
In Italia la parola babà è usata per la prima volta in un ricettario del 1836, scritto dal cuoco romano Vincenzo Agnoletti. In questo libro, il babà è ancora descritto come un dolce che si prepara con panna, vino, uvetta e zafferano. Lo stesso avviene nel Trattato di cucina di Giovanni Vialardi (1854) e nella Scienza in cucina di Pellegrino Artusi (1891). Nei vocabolari italiani la parola babà non appare prima del 1961, ma probabilmente essa era già in circolazione. Il dolce, ormai profondamente aggiornato rispetto alla versione originaria grazie agli interventi di Stohrer e Brillat-Savarin, era giunto e si era diffuso in Italia attraverso le pasticcerie cittadine, trovando a Napoli la propria sede d’elezione.
Lo speciale rapporto tra il babà e la città di Napoli è testimoniato dalle opere di autori come Raffaele Viviani, Eduardo De Filippo o Giuseppe Marotta. I vocabolari italiani confermano, inoltre, questo legame. Ad esempio, il Grande dizionario italiano dell’uso parla del babà come di ‘dolce tipico napoletano’, mentre il Sabatini-Coletti riporta per la parola il significato regionale (campano) di ‘persona o cosa deliziosa’.
Il babà, anzi, il babbà è entrato a far parte, a pieno titolo, della gastronomia regionale e questo risulta chiarissimo dalle tante rielaborazioni salate della ricetta. Queste versioni prevedono, in genere, una ricca farcitura di insaccati o formaggi. Come le tante preparazioni della gastronomia campana, anche il babbà, dolce o salato ma sempre morbidissimo, è così versatile da mettere d’accordo proprio tutti, dagli amanti dell’innovazione agli irriducibili della tradizione.